C’è silenzio nella stanza. Tre persone dormono e io spero che la loro mente sia in viaggio verso piacevoli lidi. Magari una fra queste sta scalando ripide montagne, non perdendo la vetta come unica meta possibile, un’altra è tornata a vivere l’estate della sua vita e sono quasi certa che una di esse stia raccontando un brutto sogno alla sua famiglia, non tralasciando gesti e parole inespresse.
Una signora sembra essere in procinto di inveire duramente contro un’acerrima nemica: la sua mano. Ha l’aria stanca, ma ostinata: quell’arto dovrà decidersi a muoversi, prima o poi!
Le sedie, posteggiate accanto i loro letti, raccontano le piccole grandi tragedie che si sono abbattute sulle loro vite, così come il cigolio delle ruote “in corsa” per il corridoio.
Fuori c’è il sole e l’occhio non può che spaziare dalla grande macchia verde all’immenso mare blu, che circonda il parco, restituendomi l’idea di essere su una piccolissima porzione di terra perduta nel mare. I gabbiani si librano alti nel cielo sopra di noi, quasi a volerci dimostrare di non essere schiavi della gravità e di quell’isola…
Io non ho le ali. Nessuno le ha qui. Qui bisogna fare i conti con un corpo che magari hai amato fino al giorno in cui ti ha reso schiavo, o che hai disprezzato e che oggi vorresti ti fosse restituito per farne il tempio della tua anima. Qui si scopre la fatica. Quella vera.
Un uomo di circa quarant’anni continua ad affrontare il lungo corridoio del reparto, ben saldo al passamano e trascinando una gamba che ha perso la vecchia armonia con la compagna di traiettoria. Un ictus gli ha provocato un’emiparesi laterale, non gli rimane che impegnarsi fin quando il suo corpo deciderà di obbedire al suo volere, fin quando potrà tornare a prendersi cura dei suoi figli.
Un ragazzo di circa vent’anni , affetto chissà da quale tremenda malattia, mi saluta con voce meccanica, prima di urtare un cestino della spazzatura. Non lo ha visto. Non sono certa che veda me. Però mi sorride e il suo sorriso non nasconde nessuna forzatura, nessuna falsità.
Un simpaticissimo maestro in pensione si ferma di tanto in tanto per scambiare due chiacchiere. Per me sta diventando quasi un nonno, lui mi incontra sempre per la prima volta. Ha subito un delicatissimo intervento al cervello, perché un aneurisma rischiava di esplodere da un momento all’altro, non lasciandogli nessuna speranza. Fu dato per morto, oggi è qui che conversa con piacere e coinvolgimento. Magari non lo ricorderà tra cinque minuti, ma poco importa perché della moglie (sempre al suo fianco) e delle figlie si ricorda eccome.
Ma è un ragazzo “di un’età indefinita” che mi ha indirizzata verso orizzonti del tutto nuovi e paesaggi inesplorati. Il suo corpo riporta e racconta i segni di una vita dura, di una malattia che non guarda età: la sclerosi multipla. La malattia gli ha portato via “gli anni d’oro” e non solo. Ma lui è qui e non è sconfitto da una sedie a rotelle: lui vive il suo presente, che è riuscito a non contaminare della negatività del passato. Non ha vinto la malattia su di lui. A dirla così, sembra una fesseria, ma giuro: le sue parole, i suoi modi di fare e il suo vivere mi hanno cambiato la vita.
Osservo meglio i gabbiani e comprendo che anche loro sono costretti a scendere sulla terra e a fermare il loro volo: devono nutrirsi. Fatto ciò possono ripartire, raggiungere le nuvole e scomparire nel sole.
Adesso, mentre sono qui a battere sui tasti della tastiera le dita, penso che c’è chi non può farlo. Penso che c’è tanta gente che non può parlare, sentire, camminare, ricordare. C’è gente che si chiede perché una vita gli è stata donata, o che ingloba rabbia e amarezza per il destino riservatogli. C’è anche della gente, però, Maestra di Vita, gabbiano fra cielo e terra. Ed è a loro che io voglio dedicare queste righe, per esprimere un GRAZIE che non si perderà nel tempo e allo scontrarsi con le difficoltà del cammino della vita.
Chiara Ferrante