Oggi il mare oltre gli Alberoni è squassato da un vento impetuoso, è vento di Libeccio, assai inusuale da queste parti: il rumore della risacca, ritmico e prepotente insieme, mi giunge attutito da alte dune di sabbia. Sembrerebbe che questa breve introduzione si attagli di più ad una spiaggia tropicale che non alla Serenissima Venezia.
Cammino tranquillo su un tappeto verde smagliante: penso per quale strano destino io sia giunto in questo luogo che si presenta così lindo e pulito... Mai avrei pensato che la regale Venezia nascondesse tra le pieghe del suo mantello una gemma preziosa, a pochi conosciuta. Ed è veramente un dono della Provvidenza questo centro di ricerca e di riabilitazione motoria.
Io ci sono approdato dopo una storia di malanni vari, tra cui una nefrectomia ed un Parkinson ormai quasi trentennale, quest’ultimo accompagnato da un accentuato abbassamento della voce.
Qui arrivano da tutta Italia le persone che hanno subito un ictus oppure un incidente stradale, arrivano qui con la disperazione nel cuore: una persona non può non essere disperata di fronte ai propri cari, immobilizzati su una sedia a rotelle, che non possono nemmeno accennare un batter di ciglia e che per esprimersi muovono con il mento una sfera. Ma giunti qui trovano un gruppo di persone che oltre all’esperienza ci mettono il cuore nel curare gli ammalati. Persone che la mattina si alzano per recarsi ad un appuntamento con un mondo di sofferenza, dove basta un cenno, un sorriso per ridare speranza.
La mia personale esperienza con questo Centro risale ad ormai una dozzina d’anni. Sono un paziente un po’ particolare, se pensate che da più di trenta anni soffro di Parkinson, una malattia infida, ma non più di tante altre. Una malattia degenerativa, che provoca dei disturbi anche molto gravi e può portare all’immobilità assoluta.
Quasi dieci anni fa fui operato in Francia a Grenoble dall’equipe Pollak—Benhabid. Con una operazione durata più di dodici ore, mi restituirono alla vita, poiché recuperai quasi tutte le mie facoltà, facendo di me un uomo nuovo. Ma non riuscirono a recuperare la voce: dovetti dedicarmi allo studio ed alla pratica della logopedia. Parola difficile che deriva dal greco e vuol dire “materia che studia i metodi di apprendimento del linguaggio”.
Ormai da quasi cento anni in questo Centro si è sviluppata un’arte che non è da meno di quella dei Mastri vetrai, delle trine o dei merletti, ormai famosi in tutto il mondo. Quell’arte che ha del magico nel riuscire a far pronunciare a delle labbra che rifiutano di aprirsi una prima timida “a”, quell’arte capace di scavare nel profondo del cervello di un corpo immobile fino a trarne il primo incerto movimento di una mano.
Ho detto magico, ma niente è più lontano dagli istrioneschi ciarlatani di un tempo. Qui tutto è frutto di infinita pazienza, di grande conoscenza del corpo umano che il personale tutto possiede.
Ed infine la tecnologia, che qui è la più moderna; non per niente esiste una Fondazione che lavora per far si che la conoscenza raggiunga livelli sempre più elevati.
A tutto questo riflettevo mentre, lasciata la spiaggia battuta dal vento rientravo nella mia stanza. Tra poco sarei andato ad aiutare gli infermieri a sistemare le sedie a rotelle sull’ampia balaustra.
Mi ricordavo di avere fatto lo stesso a Lourdes e poi ancora in Belgio dove esiste un centro come questo. In questi luoghi, dove il dolore domina sull’ uomo, il canto che sale al Cielo è sempre un Alleluia corale cantato in tutte le lingue, un canto che trasforma il dolore in speranza.
Gianfranco Scilipoti